L’ultimo lo tengo per i capelli, frantumo la sua testa di cazzo sulla spillatrice della birra, una volta, due volte, tre volte, alla quarta gli partono gli occhi dalle orbite, solo allora stringo la presa sulle sue tempie squarciate, spillando sangue e cervella dal suo volto ormai violaceo, una cappella tumefatta pronta a esplodere.
- E’ antisghenicoo - sentenzia Spugna, mentre con una pezzetta sozza cerca di ripulire il suo bancone, un cimitero improvvisato, consacrato agli stronzi che mi volevano morto.
Ho fame, mi capita spesso dopo che scopo o dopo che uccido; allungo la mano su delle noccioline sparse per terra, mi giro verso i tristi habitué di questo buco di merda e grido:
- Ehi, è qui la festa!!! -
Odio chi non sa divertirsi; non rispondono, alcuni mi fissano battendo i denti, un paio sembrano svenuti, altri sono ancora in trance per la performance della piccola Trilli, che non vedo, starà arrotondando la paga sotto un tavolo o in qualche camerino.
Neanche il tempo di leccarmi le dita che le nocche mi prudono ancora: altri scagnozzi sbucano dal palco, sparando subito il loro repertorio, un sottofondo di pistole, accompagnate da un assolo di mitra.
Steccano spesso: artisti inesperti, hanno bisogno di un direttore d’orchestra come me, che li diriga al creatore.
Estraggo i miei revolver, ringhiando insieme a loro come un novello cerbero:
- Venite a prenderle, figli di puttana!! -
Scoppia un casino di prima classe.
Come criceti in gabbia, i falliti sotto il palco corrono per la sala, squittendo urla incomprensibili. Spugna abbraccia i cadaveri spiaccicati sul suo bancone, ingurgitando ettolitri di birra dalla spillatrice insanguinata. Forse non possono scappare, forse qualcuno ha serrato le porte e le uscite di sicurezza.
Non è un problema mio.
La confusione è un’alleata preziosa e inaspettata. Penetro nella mischia e come per magia, pallottole indirizzate a me sfondano crani e polmoni innocenti.
Non durerà a lungo: la fortuna è la classica troia che te la fa annusare e non te la dà. Con un calcio rovescio il tavolo che mi sembra più robusto, quello da pool, e mi accovaccio al sicuro; sento pallottole imprecise fendere l’aria, mancando il mio nuovo riparo, così mi unisco allo show: senza scoprirmi, concedo ai miei revolver di sparare gli ultimi colpi a cazzo di cane.
- Non è umano… sembra fatto d’acciaio! -
- Hai ragione, Russo! Io gli ho scaricato addosso un caricatore… e era anche maggiorato!! -
- Dovrebbe barcollare, sputare sangue come un operaio bolscevico, e invece… -
- Invece, moriremo tutti!! -
Li sento mentre si disperano. Menti deboli, cuori meschini; non c’è quasi piacere nel farli fuori.
Quasi.
Ricarico. Come bestie affamate, i miei revolver fagocitano i loro proiettili preferiti: li chiamano “scamiciati”, si frantumano al momento dell’impatto, dilaniando la carne e sgretolando le ossa; solo il meglio per i miei cuccioli.
Una luce abbaglia i miei occhi, un riflesso dorato, così la vedo; vedo una fatina librarsi tra la vita e la morte: è Trilli. Una patatina bionda, sporca di ketchup. E’ ferita, perde sangue dal suo culetto angelico; forse è stata colpita da una pallottola vagante, o che cazzo ne so: non andrà da nessuna parte in quelle condizioni, si trascina per la sala come una checca appena inculata, quando uno scagnozzo la carica sulle spalle. Ho una buona visuale da qui, potrei centrarlo in pieno petto, ma non lo faccio. In un battito d’ali entrano in un uno stanzino malcelato, che si richiude altrettanto velocemente.
La vogliono viva.
Continua...
lunedì 22 ottobre 2007
lunedì 1 ottobre 2007
Neverland
- Seconda traversa a destra, e poi dritto fino a “Marino”, il baretto, quello dove ti danno gli avanzi del pranzo… lì di fronte c’è “Neverland” -
Alzo il finestrino senza ringraziare, il lurido barbone non mi serve più. Quand’ero bambino m’avevano insegnato a non far soffrire gli animali feriti; qualche spicciolo prolungherebbe soltanto l’agonia di questo storpio del cazzo. Accelero quel tanto che basta per mandare l’auto su di giri, alzo la frizione di scatto e travolgo il barbone in una sgommata violenta, lasciando una scia di sangue e gomme sull’asfalto; il cuore l’ho lasciato a casa, tra vecchie foto consumate e ricordi malati, dopati negli anni da troppa importanza.
Devo fare un fottuto lavoro, e devo farlo bene.
Mi addentro nel vicolo calpestando blatte e immondizia; spero di pestare presto qualcos’altro
- Ehi tu, stronzo… si, dico a te! –
Che cazzo di culo, un buttafuori desideroso di farla finita. Era ora, le nocche mi facevano male, mi prudevano dalla voglia di massacrare qualcuno.
- Sei in lista? O sei in lista o ti trovi una donna per entrare. Abbiamo già troppe mazze lì dentro –
- Mi spiace, ma non ho visto belle pollastrelle nei paraggi… a quanto sembra tua madre sta già ciucciando qualche grosso uccello… -
- Ehi, ma che cazzo!? –
Prova a sbattermi a terra sfruttando il suo peso. Pessima idea. Entro nella sua guardia, aperta come una puttana strafatta e gli sradico la carotide a mani nude.
- Però, se proprio lo vuoi sapere, tua sorella mi sta aspettando a fica larga – gli rido in faccia rumorosamente mentre il sangue zampilla dal suo collo grasso, disegnando qualcosa sul muro. Qualcosa di surrealista; mi ricorda il secondo Mirò, adoro quella roba.
Entro nel locale spintonando un po’ di stronzi. Che musica di merda. Un bel cesso intasato, ecco dove sono finito.
Mi siedo al bancone, uno stronzo mi guarda storto.
Cazzo, sono io.
Estraggo il mio fido revolver dal cappotto, abbaiando qualche raffica contro lo specchio. Non mi piace prendere brutti colpi.
Piove vetro.
Le schegge dilaniano qualche tetta svestita e qualche faccia tirata male.
Rido di gusto, quando il barman m’interrompe.
Flaccido, vecchio, il naso rosso a patata, l’espressione rubiconda.
No, non è babbo natale.
- Sonho Spugnaah, in cosha possho escheerle utilee? –
- Ho sete -
- Cosha beeve?
- Fai tu, tanto t’ammazzo lo stesso -
- A benee… allocha ci do sotto con queesto drink -
Mentre il vecchio ciccione fa roteare delle bottiglie in aria, nel disperato tentativo di rendersi simpatico, le luci calano, per poi spegnersi in una morte apparente.
Parte una musica sdolcinata.
Un po’ fuori tempo, le luci risorgono.
Le bottiglie del vecchio baciano il pavimento, struggendosi per quel che hanno visto, la sua mascella sbava sul bancone tra sputi e alcol rovesciato.
E’ Trilli.
Una patatina bionda, tutta da mordere.
Inizia a ballare lasciva, sembra quasi sciogliersi in una padella piena d’olio, un palco grondante di bava, vomitata dai falliti ai suoi piedi. Una massa di bimbi sperduti in piena tempesta ormonale.
Trilli è vestita da fatina. Oddio, vestita. Indossa un tanga verde minidotato che gli fascia il suo culetto appetitoso, delle stelle luminose gli coprono i capezzoli bruni, delle comete turgide pronte ad esplodere dal desiderio. Pietre preziose e una spruzzata di brillantini ornano le sue gambe sinuose, perfette, un tesoro da sogno che forse non appartiene a nessun sultano. Sulla sua schiena, levigata come seta, si librano delle ali dorate. Sembrano svolazzare in un battito innocente, animate dalla stella luce che percorre il suo sorriso, ma solo uno sciocco potrebbe pensarlo davvero. Quelle ali posticce, di plastica, sbattano solo grazie alle sculettate, ora assatanate, della piccola, dolce Trilli. Avrà al massimo 13 anni; provo pena per quei porci pervertiti sotto il palco.
Rivoli di bava mi colano dalla bocca, finché il mio senso di ragno pizzica: le nocche mi prudono di nuovo.
- E’ quello lì! Quello seduto al bancone tra i pezzi di vetro… ha ucciso lui Carl! –
- Ok… cazzo quanto è grosso, chiama gli altri, non possiamo farcela da soli –
Mando giù il cocktail che il buon Spugna mi ha preparato con amore. Sa di piscio.
Glielo sputo in faccia, come per cacciare il cattivo sapore.
Poi mi alzo, facendo schiantare lo sgabello a terra ed estraggo i miei revolver, pronti a mordere come cani rabbiosi.
- Offree la cashaa – mi dice Spugna, tremando come un cazzo di malato. Ha paura di me, non capisco, ho cercato d’essere buono con lui. Cerco di calmarlo: – Dai quella merda non era poi così schifosa, potrebbe andare bene per sturare un cazzo di cesso – ma non ho questo lusso. Mi ritrovo circondato da quanti più stronzi potessi mai desiderare. Un fottuto piccolo esercito. Gli occhi mi lacrimano… non riesco a trattenere una risata diabolica, compiaciuta; finalmente la serata inizia a girare per il verso giusto.
Continua…
Alzo il finestrino senza ringraziare, il lurido barbone non mi serve più. Quand’ero bambino m’avevano insegnato a non far soffrire gli animali feriti; qualche spicciolo prolungherebbe soltanto l’agonia di questo storpio del cazzo. Accelero quel tanto che basta per mandare l’auto su di giri, alzo la frizione di scatto e travolgo il barbone in una sgommata violenta, lasciando una scia di sangue e gomme sull’asfalto; il cuore l’ho lasciato a casa, tra vecchie foto consumate e ricordi malati, dopati negli anni da troppa importanza.
Devo fare un fottuto lavoro, e devo farlo bene.
Mi addentro nel vicolo calpestando blatte e immondizia; spero di pestare presto qualcos’altro
- Ehi tu, stronzo… si, dico a te! –
Che cazzo di culo, un buttafuori desideroso di farla finita. Era ora, le nocche mi facevano male, mi prudevano dalla voglia di massacrare qualcuno.
- Sei in lista? O sei in lista o ti trovi una donna per entrare. Abbiamo già troppe mazze lì dentro –
- Mi spiace, ma non ho visto belle pollastrelle nei paraggi… a quanto sembra tua madre sta già ciucciando qualche grosso uccello… -
- Ehi, ma che cazzo!? –
Prova a sbattermi a terra sfruttando il suo peso. Pessima idea. Entro nella sua guardia, aperta come una puttana strafatta e gli sradico la carotide a mani nude.
- Però, se proprio lo vuoi sapere, tua sorella mi sta aspettando a fica larga – gli rido in faccia rumorosamente mentre il sangue zampilla dal suo collo grasso, disegnando qualcosa sul muro. Qualcosa di surrealista; mi ricorda il secondo Mirò, adoro quella roba.
Entro nel locale spintonando un po’ di stronzi. Che musica di merda. Un bel cesso intasato, ecco dove sono finito.
Mi siedo al bancone, uno stronzo mi guarda storto.
Cazzo, sono io.
Estraggo il mio fido revolver dal cappotto, abbaiando qualche raffica contro lo specchio. Non mi piace prendere brutti colpi.
Piove vetro.
Le schegge dilaniano qualche tetta svestita e qualche faccia tirata male.
Rido di gusto, quando il barman m’interrompe.
Flaccido, vecchio, il naso rosso a patata, l’espressione rubiconda.
No, non è babbo natale.
- Sonho Spugnaah, in cosha possho escheerle utilee? –
- Ho sete -
- Cosha beeve?
- Fai tu, tanto t’ammazzo lo stesso -
- A benee… allocha ci do sotto con queesto drink -
Mentre il vecchio ciccione fa roteare delle bottiglie in aria, nel disperato tentativo di rendersi simpatico, le luci calano, per poi spegnersi in una morte apparente.
Parte una musica sdolcinata.
Un po’ fuori tempo, le luci risorgono.
Le bottiglie del vecchio baciano il pavimento, struggendosi per quel che hanno visto, la sua mascella sbava sul bancone tra sputi e alcol rovesciato.
E’ Trilli.
Una patatina bionda, tutta da mordere.
Inizia a ballare lasciva, sembra quasi sciogliersi in una padella piena d’olio, un palco grondante di bava, vomitata dai falliti ai suoi piedi. Una massa di bimbi sperduti in piena tempesta ormonale.
Trilli è vestita da fatina. Oddio, vestita. Indossa un tanga verde minidotato che gli fascia il suo culetto appetitoso, delle stelle luminose gli coprono i capezzoli bruni, delle comete turgide pronte ad esplodere dal desiderio. Pietre preziose e una spruzzata di brillantini ornano le sue gambe sinuose, perfette, un tesoro da sogno che forse non appartiene a nessun sultano. Sulla sua schiena, levigata come seta, si librano delle ali dorate. Sembrano svolazzare in un battito innocente, animate dalla stella luce che percorre il suo sorriso, ma solo uno sciocco potrebbe pensarlo davvero. Quelle ali posticce, di plastica, sbattano solo grazie alle sculettate, ora assatanate, della piccola, dolce Trilli. Avrà al massimo 13 anni; provo pena per quei porci pervertiti sotto il palco.
Rivoli di bava mi colano dalla bocca, finché il mio senso di ragno pizzica: le nocche mi prudono di nuovo.
- E’ quello lì! Quello seduto al bancone tra i pezzi di vetro… ha ucciso lui Carl! –
- Ok… cazzo quanto è grosso, chiama gli altri, non possiamo farcela da soli –
Mando giù il cocktail che il buon Spugna mi ha preparato con amore. Sa di piscio.
Glielo sputo in faccia, come per cacciare il cattivo sapore.
Poi mi alzo, facendo schiantare lo sgabello a terra ed estraggo i miei revolver, pronti a mordere come cani rabbiosi.
- Offree la cashaa – mi dice Spugna, tremando come un cazzo di malato. Ha paura di me, non capisco, ho cercato d’essere buono con lui. Cerco di calmarlo: – Dai quella merda non era poi così schifosa, potrebbe andare bene per sturare un cazzo di cesso – ma non ho questo lusso. Mi ritrovo circondato da quanti più stronzi potessi mai desiderare. Un fottuto piccolo esercito. Gli occhi mi lacrimano… non riesco a trattenere una risata diabolica, compiaciuta; finalmente la serata inizia a girare per il verso giusto.
Continua…
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